Di Umberto Valentinis
Ci sono stagioni dell’anno che sembrano disabitate. Accade quando un nuovo anno incomincia, e gli ingranaggi della macchina del tempo sembrano incepparsi. Succedono ad altre, gremite di segni, di voci. Così, tra il Natale e la Pasqua, il tempo sembra che si svuoti, come per effetto di un doppio risucchio. Passata l’Epifania, sembra scivolare all’indietro verso Oriente, al seguito del corteggio dei Magi, che ritornano alle loro dimore. Il vuoto risuona dello scalpiccio degli zoccoli dei cavalli, dei cammelli: del loro lento ruminio. L’esodo sembra trascinarsi dietro il prodigioso splendore di prima, come una spoglia vuota. A Occidente, tra arsure e roveti, si inoltra un altro esodo: furtivo, questo, e misero.
Un asino solo e sulla sua groppa il lieve gravame di una madre e di un Figlio; di fianco, l’uomo che regge la cavezza, l’alterno battito del bordone sul terreno sassoso, il breve ansito silenzioso; il frusciare delle ali dell ’Angelo che accompagna il transito e lo guida. Nel mezzo, è rimasta vuota la capanna, deserta la mangiatoia. I pastori sono ritornati ai loro bivacchi sui monti, sotto il cielo ritornato vuoto, spariti negli abissi del firmamento gli Angeli e il bagliore prodigioso della stella. Ma finché durava, la misteriosa poesia del Natale abitava ogni casa: accompagnava le parole e i gesti quotidiani, tra i tepori del fuoco acceso e i rigori delle stanze non riscaldate, dove il respiro si condensava fuori dalle labbra. Come nei campi la brina. Dopo, all ’insensibile innalzarsi dell’arco solare, qualcosa incominciava a insinuarsi dal di fuori in quel chiuso, e la protezione dell’intimità disarmata si sgretolava. Altri rituali si succedono, insofferenti degli spazi angusti della casa. Vogliono uscire all’aperto, a mescolare i loro racconti con i rumori del mondo. Allora si trascinavano rombando per le strade dei paesi i Carri mascherati del Carnevale, traballando in precario equilibrio le loro povere scenografie, ingenuamente sguaiate. Passavano maschere intirizzite, rese irriconoscibili dal nerofumo, dai belletti a chiazze, più ancora dall’imbarazzo: coperte di stracci tinti, di vecchie zimarre odorose di naftalina, sdrucciolando sul selciato gelato, in un viluppo di sberleffi, di strida, mentre si srotolavano sfrigolando le stelle filanti e i coriandoli lanciati a manciate finivano anche in bocca, tra le labbra spalancate nel riso, inturgidite dal rossetto. A lungo rintronavano per le androne i lazzi, gli schiamazzi delle compagnie festanti, finché oscillava per le strade deserte a notte fonda solo l’alone giallastro delle luci, nel vento. E là dove il paese finiva nel buio, neanche più quello. I giorni del Carnevale si svolgevano per strada. I vagolanti rientravano a casa solo per i crostoli da sgranocchiare alla svelta, spolverati di zucchero a velo, a ricordare forse che un velo di neve stanca resisteva sui monti, e che neve fresca ne poteva ritornare ancora, se la Candelora prediceva il vero. Intanto, nel vuoto della stagione in bilico tra inverno e primavera, si preparava la Pasqua. Ma non era il chiuso della casa, lo spazio predisposto per i suoi rituali luttuosi e gloriosi. Le sue narrazioni faticano a trovare una parafrasi emozionale nell’intimità della devozione domestica. Hanno bisogno di espandersi in spazi risonanti di coralità conturbata, dove l’interiorità nuda e disarmata è senza rifugio e rischia di venire sopraffatta, in timore e tremore, dalla sacra rappresentazione di morte e resurrezione. Bisognava uscire di casa: varcare la soglia della Chiesa, inoltrarsi nel freddo e nella penombra, assistere sgomenti, col cuore contrito, al graduale spegnersi delle fiammelle e delle voci, nel terrore del buio e della fine del tempo, mentre le craçules sgretolavano il silenzio. Nulla di quell’esperienza estrema si sarebbe raccolto, depurato, addomesticato, nel chiuso di un rituale domestico: non lo strazio del Venerdì, nemmeno l’esultanza giubilante delle campane che annunciano la Vittoria sulla morte.
Ma al centro di questa stagione incerta, sullo stentato verdeggiare lungo le prode, ai bordi dei ruscelli che ritrovavano la voce, tra morte e rinascita, si annida un oggetto enigmatico, deposto nel nido della tradizione alla fine d’immemorabili transiti simbolici e in esso covato lungo i millenni.
L’uovo.
Difficile immaginare un oggetto naturale che imiti più ingannevolmente un prodotto artificiale, un manufatto. Nasce intero, insondabile nella sua geometrica perfezione. Ed è un enigma immaginare le misteriose alchimie che presiedono alla metamorfosi di minuti frammenti minerali, di frustoli di materia inerte, raccolti a caso sul terreno da ignari intermediari, nelle sue prodigiose volumetrie, conglomerate: avvolte e levigate nella loro perfezione minerale intorno a un nucleo occulto di oro liquido, sospeso sul chiuso di acque lattiginose. E il pensiero dell’oscuro crogiolo, del sordido athanor, dove fermenta il suo miracolo. Nelle viscere di pennuti di bassa corte: della stolida gallina. E quale cloaca lo trasporti dal buio e lo deponga alla luce, restituito al terreno dal quale era nato. Ignare del mistero che hanno nutrito e ospitato, le galline riprendono il loro becchettio, il loro razzolare instancabile, ritmato dai brevi spasmi tetanici della cresta informe, imporporata, mentre l’occhio fissa indispettito qualcosa, e si arruffano le piume. Che rapporto può stabilirsi tra questo improbabile trionfo della occulta geometria naturale e il disordine vegetale che tutt’intorno moltiplica le dissimmetrie, frastaglia le forme, le moltiplica, in un’ansia di equilibri sempre rinviati, solo faticosamente raggiunti? Il fermento della vita che muta incessante, contro il chiuso silenzio della perfezione. Ma sia il brulicare della vita risorta che la perfezione quasi minerale dell’uovo sono legati misteriosamente al mistero del tempo pasquale: ne interpretano l’anima duplice, il manifesto e il nascosto: l’aprirsi del chiuso e il rinascere dal frammentato e dissolto. Sborf. Così l’avevo chiamata, la dimessa regina del pollaio di casa, rimediato alla meglio in tempo di guerra in un angolo dell’orto, accanto alla rimessa. In contrasto con l’aspetto poco invitante, un garbuglio trasandato di penne rade e di piume di incerto colore, al sommo di lunghe e magre gambe giallastre, un incedere pieno di dignità, con brevi sospensioni di sguardi all’infinito. Le sembrava poco familiare il frenetico becchettare delle sodali, razzolanti nella pollina: preferiva una attitudine di pensoso, nobile ritegno. Mi riconosceva e mi si avvicinava a piccoli passi, accompagnando l’incedere con sommessi chiocchiolii, con lenti tour-de-tête, durante i quali la modesta corona della cresta fremeva in cima alla testa calva, avvampando, e sull’occhio altero calava la membrana della palpebra, come la buccia intorno a un acino. Poi con lo stesso incedere misurato prendeva congedo, con un ultimo chiocchiolio. La accompagnavo con lo sguardo, e rimuovevo il pensiero che avrebbe fatto anche lei la fine delle altre: la punta del coltello avrebbe trafitto a tradimento anche il suo orecchio, e ne sarebbe sgocciolato il nero sangue, a impastarsi col pangrattato nel tegamino. Ma le uova che elargiva allora erano le più belle, le più bianche, le più pulite. Per la merenda del Lunedì di Pasqua, non potevano che provenire da lei le uova colorate da far rotolare lungo i ronchi, sui colli di San Lenart. La coloratura delle uova era rito domestico, affidato alle mani sapienti della nonna, ma essere coinvolti nella ricerca e nella raccolta delle erbe più adatte, dei pochi fiori della primavera appena agli albori, era un privilegio che i nipoti si disputavano con accanimento. Uscivano bollenti le uova dall’immersione alchemica in acque acidulate, sbarazzate dai molteplici sudari di pezza che le avevano avvolte, dai viluppi di bucce di cipolla dorata, che avevano ceduto i loro mirabili umori, trattenendo insieme i frammenti vegetali intercalati, fissando sulla superficie liscia le loro impronte, i loro verdi succhi, i pigmenti variopinti. Cosa potesse emergere alla fine della spoliazione sul calcare del guscio, nessuno poteva immaginare, ma raramente il desiderio di meraviglia che teneva col fiato sospeso i concelebranti restava deluso. Arcobaleni di marezzature, di screziature estrose, di marmorizzazioni impreviste comparivano e si rimescolavano a ogni rotazione che le dita impartissero a quell’oggetto mirabile.
E larve di forme quali soltanto i sogni fanno balenare e subito sottraggono, apparivano ammiccando tra gli anfratti di quei piccoli ma inesauribili universi. Nessun pennello, neanche guidato dalla mano dell ’artista più fantasioso, avrebbe potuto eguagliare quella bellezza. Al raffreddarsi delle uova, al prosciugarsi del sottile velo di sudore che manteneva vivi i colori, l’arcobaleno sembrava dissolversi. Ma risplendeva di nuovo, solo a ripassare le superfici opache con una pezza appena imburrata. Ora le uova colorate riposavano adagiate su un tovagliolo bianco, sul fondo di un cestino, e le accompagnavano i primi fiori della stagione, gli stessi che affioravano appena più offuscati, sulle loro superfici. Poco discoste, più domestiche sorelle, divenute ûs dûrs, si disponevano ad accompagnare il lidric cul poc nei piatti. E sembrava che tra le due famiglie non vi fosse possibile rapporto. Ma non era così. Anche per quelle piccole meraviglie sarebbe giunto il momento di rotolare lungo i pendii, di ammaccarsi, di fendersi, di spiaccicarsi. E alla fine, di uscire nude dalle vesti mirabili ed effimere che le avevano rivestite e ritornare materia da masticare, da inghiottire, da digerire, mescolata ad altre. Da dimenticare.
Frammenti di arcobaleni sui gusci marezzati, si sarebbero disgregati lentamente tra i cespi dell’erba nuova. Qualche uccello di passaggio li avrebbe forse becchettati, chiudendo il ciclo iniziato in qualche lontano pollaio. E un altro uovo si sarebbe formato.
E altra vita sarebbe rinata.