DALLA VALCANALE di Raimondo Domenig
Due occhi d’un colore blu-verde intenso, due specchi d’acqua cristallina si stagliano nel cielo. Sono i due laghi di Fusine in Valromana, un tempo Weissenfels. Veri gioielli alpini, hanno un aspetto impareggiabile e dimensioni ridotte. I loro fondali sono formati da grandi avvallamenti nel terreno, profondi segni tangibili di un possente ghiacciaio che qui è scivolato verso la piana di Fusine. Siamo nella conca delle Ponze, la catena di montagne in cui a occidente si staglia la maestosa cima del Mangart (m 2677) a forma di piramide. Pare una naturale guardia dei due specchi d’acqua. Sono due laghetti legati da sifoni sotterranei, cordoni ombelicali che li differenziano sia per forma, grandezza e aspetto.
Il lago più grande a quota 924, detto inferiore, è un tipico laghetto alpino dalla forma tondeggiante. Le piante che lo circondano scendono fino a toccarne la riva. I sui anatroccoli ogni tanto rompono il silenzio con il loro verso, mentre le barchette dei turisti lo attraversano silenziose, quasi rispettandone lo scenario bucolico. Due costruzioni in legno ne interrompono la circonferenza. Nella parte meridionale un ampio terrapieno lo cinge quasi a proteggerne le acque.
L’altro laghetto sta 5 metri più in alto, a quota 929. È quello superiore, austero, meno dolce e misterioso. Ha l’aspetto quasi dimesso rispetto al suo gemello, quasi debba un bel giorno scomparire per restare nascosto per sempre allo sguardo. È infatti gravemente minacciato dall’insabbiamento di un torrentello, il Vaisonz, all’apparenza inerme ma costante e troppo generoso nel fornirgli l’acqua attraverso una vasta zona umida. Una piccola capanna lo orna da un lato e una lunga transenna in legno lo divide dalla presenza degli uomini che da anni tentano invano di calpestarne le rive a bordo dei loro automezzi.
Tra i due s’alza scoscesa un’enorme morena. Giganteschi massi sono nascosti tra gli alberi; due sono i più imponenti e maestosi, dedicati ai geografi Giulio Andrea Pirona e Giovanni Marinelli. Al tempo dell’Austria rappresentavano il simbolo dell’imperatore e dell’imperatrice d’Austria. In quei tempi lontani sul lago inferiore si svolgevano feste popolari molto particolari.
Scriveva Julius Kugy, osservando i due laghetti dall’alto: “Lo sguardo cade sul terreno dei due laghi, che ricambiano la tenerezza con i colori. Nella parte sinistra si trova il loro guardiano, il Mangart con la sua statura gigantesca e, sopra lo specchio d’acqua, si ammirano i prati di colore verde pastello e i boschi oscuri. È un panorama splendido, non facilmente imitabile”.
Qui accorrono in tutte le stagioni migliaia di visitatori, che però da qualche stagione sono invitati a parcheggiare le loro vetture più in basso per non disturbare e deturpare quello scenario idilliaco e primordiale. Tutto è qui bellezza dal punto di vista naturalistico, paesaggistico e alpinistico. Tutto risponde a un grande disegno della natura, che ha voluto questi due occhi così particolari, il più grande e l’altro più piccolo su piani differenti per offrire, con i loro sentieri nascosti nel bosco di faggi e di abeti, scenari sempre nuovi e diversi secondo i momenti del giorno e delle stagioni. È uno spettacolo davvero unico e apprezzato.
E dire che nulla era scritto in documenti e in mappe molto datate su questi due piccoli gioielli incastonati a piedi del massiccio roccioso che separa l’Italia dalla Slovenia. Erano inesistenti per gli uomini che qui allora vivevano, quasi che al Mangart mancassero dei meravigliosi gioielli preziosi.
Come si spiega anche l’assenza di un solo cenno? L’attenzione era allora rivolta al monte come sito dall’aura divina. Visto dalla Valcanale richiama lo splendore della luna. Lei spunta all’imbrunire proprio dietro il monte e qualche antica civiltà lo adorava per questo. Mannhart o Mangart sono termini maschili che indicano, nell’antico linguaggio tedesco, il “giardino della luna”. Secondo la credenza popolare lassù riposava la luna durante il giorno, dopo le fatiche del moto in cielo durante la notte. Salire alla cima del monte era ritenuto un'avventura pericolosa e temeraria, riservata solo ai camosci e, nelle leggende, ad intraprendenti temerari cercatori di tesori nascosti. Oggi una comoda strada ne raggiunge le asperità rocciose dal versante della vicina Slovenia.
La prima citazione di un lago è del 1498 nell’urbario di Weissenfels, in cui si dice: “der see so under Manhardt liegte”, il lago che giace(va) sotto il Mangart. Più in avanti in un contratto per i pascoli degli abitanti di Weissenfels e di Rateče si parla nel 1617 di “Alben bey dem See”, malghe presso il lago e si cita anche del suo emissario, Seebach, ora Rio del Lago.
Tutto l’interesse era funzionale al monte e alle malghe. La bellezza del fondovalle, dei laghi e delle malghe che li ornano sottomonte non contava. Nessun cenno è riportato, ad esempio, nella tavola del Floriancic (Ducato della Carniola 1744). La prima ascensione al monte, di cui si ha testimonianza scritta in una cronaca ottocentesca fu quella di Franz conte di Hochenwart. Era il 20 agosto del 1794. Accompagnato da una guida, un fabbro di Weissenfels, il conte raggiunse sella Travnik e da lì in due ore salì in solitaria fino alla cima, l’allora forse inviolato versante nord del monte. È probabile che gli occhi dei due laghetti alpini posti ai suoi piedi lo abbiano accompagnato con lo sguardo fermo e rassicurante lungo le asperità del percorso.