SGUARDO E MEMORIA di Umberto Valentinis
Il sacro permea della sua presenza il mondo antico. La religione cerca di arginarlo, convogliando la sua forza dirompente entro l’alveo di riti manifesti o segreti. Ma sia che il sacro si manifesti nella disorganizzazione di ordini preesistenti, sia che si insinui con modalità meno traumatiche tra le maglie della realtà, o si lasci contaminare da attese messianiche, che ne attutiscono gli impatti, sempre il sacro segna una rottura di livello nell’esperienza umana e richiede un riassestamento delle sue strutture profonde e dei rapporti che istituisce col mondo. Le narrazioni del Mito, attingendo all’inesauribile repertorio fornito dall’immaginario collettivo, ricostruisce del sacro genealogie e peripezie.
Se l’irruzione di un Dio nuovo istituisce una esperienza del sacro radicalmente innovativa, che entra in conflitto con le precedenti esperienze, e con le ritualizzazioni che le avevano stabilizzate, il Dio nuovo è visto come minaccia, che attiva una serie di strategie difensive e offensive.
La minaccia si annida nell’uso che il nuovo Dio fa del lessico verbale e gestuale del mondo di prima: lo organizza secondo modalità espressive e intenzionalità significanti che sfuggono o appaiono indecifrabili o volutamente enigmatiche ai destinatari. Si crea così una rottura di livello conoscitivo tra Nuovo e Vecchio, che non tarda a produrre conseguenze esistenziali, etiche e politiche potenzialmente devastanti.
L’avvento di Dioniso a Tebe, rappresenta un caso emblematico di conflagrazione catastrofica tra Nuovo e Vecchio, innescata dalla nuova visione del sacro. Nelle Baccanti, una delle sue più tarde Tragedie, Euripide mette in scena il destino di Penteo e della sua casa, distrutti dall’avvento del nuovo Dio.
Dioniso è un Dio antichissimo e nuovo, che propone attraverso i suoi riti orgiastici una pratica rivoluzionaria di rottura estatica dell’individuazione. Attraverso la liberazione dai vincoli dell’individuo empirico e dalle condizioni della sua esistenza quotidiana, privilegia il valore conoscitivo dello stato di “divina follia”, infonde negli invasati il dono profetico e conduce alla "visione" gli iniziati. Dioniso “È il Dio della contraddizione: vita e morte, gioia e dolore, benevolenza e crudeltà, cacciatore e preda, toro e agnello, maschio e femmina, desiderio e distacco, ma tutto nell’immediatezza, vissuto assieme, senza prima né dopo...”.
Penteo, signore di Tebe, vede nell’avvento di Dioniso una minaccia, dalla quale si difende aggredendo. Difende il sistema di valori che sta alla base dell’ordine che regge la sua casa e la città che governa. I ranghi e i ruoli stabiliti all’interno di quell’ordine: quello delle donne nel palazzo, dei sudditi nella città.
Avverte l’indebolirsi delle strutture che proteggono la sua identità, ma non cerca di capire le ragioni profonde che lo determinano: evita di analizzare il rapporto sotterraneo che lega l’irrigidirsi della sua ripulsa e la seduzione crescente esercitata da quello che si ostina a rifiutare.
Assiste sgomento, ma sempre più schiavo del potere che sta per perdere, al rapido disgregarsi del suo mondo. La seduzione esercitata dai nuovi riti orgiastici sta ormai contaminando la sua famiglia: Cadmo, il padre venerando di sua madre, la stessa madre Agàve, le sue sorelle. Il palazzo è disertato, il fuoco di Estia si spegne. Un terremoto abbatte i muri della casa. La natura selvaggia fuori dal perimetro urbano, i boschi impenetrabili sui monti sono ora il luogo privilegiato per oscure scorribande orgiastiche, cui partecipano le donne della sua casa e di cui giungono a Penteo inquietanti resoconti.
Penteo è solo a fronteggiare l’enigmatico giovane, sotto le cui sembianze si cela il Dio. È solo al cospetto dello “Straniero, mago incantatore, giunto dalla terra di Lidia, fragrante nelle chiome di riccioli biondi, con le grazie color del vino di Afrodite negli occhi”.
Al crescere della sua curiosità, si approfondisce, a sua insaputa, la forza della seduzione esercitata su di lui dall’ambiguo giovinetto sorridente. Esprime infine il desiderio di assistere in incognito ai riti del Dio sul Citerone. Un ultimo espediente simbolico in difesa della sua estraneità armata chiede Penteo, prima di consegnarsi, ignaro, alla sua rovina: lo sguardo dall’alto di un albero, dall’alto e da lontano. È lo sguardo di chi si ostina a difendersi da ciò che non vuole capire, ma che lo ha già vinto; che degrada a spettacolo la celebrazione di un mistero indicibile.
L’ambiguo sorriso di Dioniso accompagna Penteo camuffato in vesti femminili lungo i sentieri del Citerone. Dall’albero sul quale è salito, osserva ora, non osservato, dall’alto e da lontano l’orgia delle Baccanti. Ma ora non vede più quello che voleva vedere, e non è più visto. L’albero sul quale era salito di vedetta verrà divelto e sua madre, divenuta Baccante, sbranerà le carni del figlio, scambiandolo per un cucciolo di fiera. La sua curiosità lo ha perduto, quell’ambiguità che aveva cercato di respingere, lo ha condannato a guardare senza riconoscere e senza essere riconosciuto. Penteo ha creduto di poter contare sul suo potere per arginare il potere del Dio e il suo sacrilegio l’ha perduto.
La sua è la tragedia di ogni ordine che si rinserri al riparo delle sue strutture effimere, dimentico delle sue origini e del suo fondamento, e di conseguenza incapace di prevedere la sua fine.
Ma ci sono altri modi di rapportarsi al sacro. Altri sguardi rivolti al divino.
Uno è lo sguardo dei pastori davanti alla grotta, una notte d’inverno in Galilea. Il Sacro si è manifestato nelle fattezze di un neonato deposto su una mangiatoia. Non si arrampicano sugli alberi, i Pastori. Restano in ginocchio sulla terra; se stanno in piedi, i bastoni li ancorano alle zolle. I loro sguardi non sono curiosi. Dal quieto splendore che emana dal fondo della grotta non si sentono minacciati. Non hanno identità da difendere. I loro cani sono sufficienti a proteggere le loro greggi e il loro sonno. La densità del loro silenzio non è turbata da attese. Nemmeno da speranze. Non parlano. Non devono preoccuparsi di mettere in relazione il linguaggio degli occhi con quello delle labbra. Restano attaccati alla terra, come se dalla terra fossero stati generati. Ma conoscono le notti e i cieli stellati, così che non si sorprendono se sull’infinito brulichio del firmamento gli Angeli intrecciano i loro voli fruscianti pronunciando parole di annuncio.
Lo sguardo dei Pastori si lascia permeare dalla manifestazione del divino senza provare timore. La assimilano forse ad altre manifestazioni di quella natura di cui fanno parte, di cui assecondano le cicliche trasformazioni. Ignari di salvezza. La riconoscono nel silenzio dello sguardo capace di meraviglia. La rivelazione si svilupperà più tardi e passerà per le parole: entrerà nella storia e avrà bisogno di traduttori, di messaggeri, di testimoni e di martiri; anche di traditori e di distruttori. Per ora, davanti alla grotta c’è soltanto la sospensione stupita dello sguardo silenzioso, che “non apprende e non proferisce”.
In alcune narrazioni popolari della Natività, c’è un momento in cui tutti gli sguardi diventano fissi, accordandosi all’improvvisa anchilosi dei gesti, al blocco dei movimenti. È l’immagine di un mondo che si arresta, come in attesa.
Può darsi che in questa fissità catatonica sopravviva la memoria di un altro sguardo, il più arcaico di tutti: lo sguardo di Medusa, una delle creazioni più inquietanti dell’immaginario collettivo occidentale… La Gorgone, antichissima tra gli dei più antichi, il cui sguardo terribile pietrifica. Ma gli oggetti che il suo sguardo colpisce non scompaiono. Il suo non è uno sguardo che nullifica. Il respiro della vita si interrompe e si rapprende inabissandosi nelle profondità della materia inanimata. Per quanto tremendo, il suo sguardo riporta le cose all’indistinto originario, al grembo oscuro dal quale sono emerse.
Quando il Nuovo appare, spesso il corso del mondo sembra arrestarsi, prima di riprendere la sua corsa, come per stanchezza, o per un effetto di risucchio. L’occhio di Medusa sembra spalancarsi su abissi dai quali molti preferiscono distogliere lo sguardo. Ma noi vogliamo soffermarci, dopo aver indugiato sullo sguardo della curiosità minacciata e impartecipe, ansiosa di rifiuto; dopo aver ricordato quello arcaico e abissale della Medusa, sullo sguardo creaturale dei pastori davanti al chiarore della grotta, nella notte fredda e serena… Al loro, chiediamo di accostare sommessamente anche il nostro.