SGUARDO E MEMORIA di Umberto Valentinis
Pasqua alta. Nella liturgia di quest’anno la forza di attrazione del primo plenilunio di Primavera solleverà un’altra volta dall’uniforme scorrere del tempo, questo, che a nessun altro assomiglia, per poi deporlo sui detriti delle prossime tempeste equinoziali. Nel mese di Aprile, “il più crudele dei mesi […] che mescola memoria e desiderio”.
Nel ricordo dei miei anni più remoti le Pasque di allora sembrano arretrare e fondersi in un’unica Pasqua che è solo bassa. Arrestate in una stagione incerta, restia a distogliersi dal torpore dell’inverno. In un paesaggio molto diverso da quello suggerito dalle cartoline augurali, con i loro tripudi di peschi rosa, di mimose d’oro, di pulcini e di uova colorate. Che vedeva ancora luccicare i cristalli della brina sull’erba secca dei prati, anche dopo i primi tuoni di Marzo, dal cielo nuvoloso che si rompe; anche dopo che la magne ha abbandonato la vecchia muta. E la poiana non smetteva di rondare in alto, trafiggendo l’aria con i suoi miagolii. Erano già spuntati gli ellebori verdi al margine delle siepi, ed erano fioriti o già sfiorivano i bucaneve, i crochi bianchi e violetti. Nei luoghi più riparati forse già spuntavano le prime viole odorose. Rinasceva odore di terra smossa, dalle montagnole delle talpe nel subbuglio dei prati, dai primi coltivi. E attraversavano l’aria ancora immobile aliti fuggitivi di brezze inquiete, e un tepore dolciastro, o il suo presentimento. Li avvertivamo, noi bambini di casa, nelle carni intirizzite e rabbrividenti delle gambe, per il cambio pasquale di stagione di nuovo obbligate ad esporsi, tra l’orlo dei pantaloni di nuovo corti e quello dei calzetti.
Ma se anche arretrava all’orizzonte la cerchia dei monti, come se dovesse far posto ad altri paesaggi, erano ancora bianche di neve le sue sommità, da oriente a occidente. E i luttuosi scenari della Settimana Santa rimandavano a presagi già avvertiti, seppure di sfuggita. Che ora nel gelo delle aule vuote e risonanti delle Chiese, davanti agli altari deserti, nel lume incerto delle candele, spente a una a una; nell’aria muta, solo di tanto in tanto incrinata dallo sgretolìo delle craçules nelle mani della mularie, rinascevano dalla stagione che non voleva dileguare. Era forse la mestizia diffusa sul volto della Madre, reclino sul figlio nelle Natività; la positura allusiva dell’Infante, il violetto luttuoso della tunica di Giuseppe; o il dono misterioso della mirra, spezia funeraria.
C’è un dipinto che entra più a fondo di ogni altro in quell’atmosfera di mestizia, di raccoglimento e di presagi. Il pittore è Caspar David Friedrich, un tedesco del nord, di epoca Biedermeier, grande e ritroso poeta del silenzio e dell’invisibile. Il dipinto si intitola Ostermorgen, Mattino di Pasqua. Lungo una strada che attraversa una campagna deserta, tra alberi spogli, tre figure femminili viste di spalle, avvolte in abiti scuri, sono in cammino. La luce è incerta e cinerea, tra di eclisse e di crepuscolo dell’alba, mentre un sole poco più luminoso della luna, che si suppone tramontata da poco fuori dal quadro, si sforza di accendersi in alto, come un miraggio. Tre, le figure: come le tre Marie, attonite davanti al sepolcro vuoto, al candore un poco sinistro della spoglia abbandonata. Anch’esse al termine del loro andare si raccoglieranno nella chiesa che le attende nel villaggio, vuota anch’essa come un sepolcro, che l’esalare dei fiati dalle preghiere e dai canti finirà per intiepidire.
Fin qui è il tempo pasquale della mia infanzia arteniese che riaffiora nel ricordo e lo racchiude nei confini della sua topografia immaginale ed emotiva. E’ un paesaggio di Primavera stentata, attutito, povero di presenze umane e di voci, dove l’attesa della resurrezione sembra indugiare, e lo splendore del Risorto, che ha vinto la morte, non dissipa ancora le tenebre. E la liturgia dell’afflizione e della morte domina incontrastata gli affetti, per culminare nella desolazione del Venerdì Santo, nelle parole terribili della Passione: “Lamma, lamma sabactani”…, “Consummatum est”…; negli eventi che le facevano prorompere; che le accompagnavano prima di abbandonarle al silenzio. Un rituale privato, da seguire in solitudine.
Ma c’è un altro paesaggio, accanto a questo: risorge poco lontano, se solo il suono di due parole riecheggia dal fondo della memoria: Lis Turbis. E restituisce un’esperienza diversa del tempo pasquale, che si intreccia con la prima e la contamina arricchendola.
E rinasce Gemona: pietrosa e ventosa, accatastata sullo sfasciume del suo conoide di detriti che nasconde le radici dei monti impervi, che la stringono tutt’intorno quasi accerchiandola. Ancora così chiusa nelle maglie del suo tessuto urbano, da discostarsi di poco dal suo antico simulacro di metallo dorato, offerto alla Madone, - alla Madonna di Castelmonte, e conservato nel suo tesoro - per una qualche grazia ricevuta in tempi remoti e turbolenti. La sua anima medievale, Gemona non solo la custodiva nelle fattezze della sua gente, nelle pietre tagliate e scolpite delle sue dimore, nelle memorie storiche orgogliose: la imponeva in prestito obbligato a chiunque o a qualunque cosa varcasse la sua porta stretta. Perfino alla vetusta corriera di San Daniele, tutta azzurra e in bilico sui suoi spropositati parafanghi, che arrancava rombando lungo la salita: trasformata in un meraviglioso animale fantastico, catafratto nelle sue lamiere, che sbuffasse mefitico fumo azzurrino dalle fauci. Anche a noi, sempre forestieri, seppure di madre “glemonasse”, venuti da una terra vicina, ma non amica.
La sera del Venerdì Santo, quell’anima invadeva il luogo, e la scenografia della Passione sovrapponeva per qualche ora alle fattezze di Gemona i tratti di una Gerusalemme stravolta e turbolenta, come suscitata da un bassorilievo tra romanico e gotico, che sgranchisse le sue giunture fuori dall’ombra secolare.
Lis Turbis, questo erano. Molto più di una delle tante Processioni del Venerdì Santo. Una Sacra Rappresentazione e insieme una recita un poco sghemba, da filodrammatica di paese. Si riversavano sulle strade lis Turbis, da Sant’Antonio al Duomo, accompagnando i figuranti che conducevano il Nazareno sotto il peso della sua croce, risollevandolo ad ogni caduta, anche dopo quelle non canoniche. Dall’ombra delle antiche case, dalle androne, da ogni vicolo, da ogni angolo del suo mirabile labirinto usciva un’umanità antica, e riempiva le strade col brusio delle sue voci, mescolandosi ai canti, alle invettive e agli improperi della liturgia. Anche le cadenze più ruvide della sofferenza, trovavano espressione in quella recita corale. Anche l’ombra beffarda, il turpiloquio di chi si accanisce sul soccombente. Nell’anima medievale del luogo, la mai estirpata violenza dei secoli bui, le tenaci diffidenze, le inimicizie tra borghi e consorterie, i feroci puntigli: anche questo confluiva nell’alveo talvolta inquieto de lis Turbis. E poteva accadere che il corteo dovesse arrestarsi sgomento e furibondo davanti alle porte chiuse del Duomo, o del convento di Sant’Antonio.
L’indomani la corriera azzurra, riacquistate le sue sembianze, avrebbe varcato rombando in discesa la porta orientale, lasciandosi alle spalle la città pietrosa e le Turbe che l’avevano percorsa. Ritornavamo a casa, in tempo per il primo rintocco delle campane risorte, per il rituale lavacro degli occhi e del viso. Avremmo esplorato a lungo il cielo, quel giorno, e il giorno dopo, per capire se il Lunedì dell’Angelo saremmo potuti uscire per la merenda sui colli di San Lenart. Le uova sode sarebbero emerse al mattino dal loro bagno alchemico tra le mani della nonna, con le mirabili marezzature impresse sul guscio dalla buccia della cipolla, con le vaghe impronte lasciate da erbe frastagliate e da fiori di campo, e sarebbero rotolate lungo i pendii, acquistando un sentore di erba, prima di essere mangiate Verso sera tutti sarebbero rincasati. E sarebbe calata un’altra volta la notte.
Un’Appendice.
Quest’anno la Pasqua precede di poco un’altra ricorrenza liturgica. Il 23 di Aprile si ricorda e si celebra, ma dovrei dire si ricordava e si celebrava, la memoria di Elena Valentinis, vedova Cavalcanti, una Santa donna udinese, divenuta Terziaria o Mantellata Agostiniana dopo la vedovanza e morta in odore di Santità in questo giorno nel 1454. Beatificata più tardi, l’urna che custodisce il suo corpo è ospitata nella Cappella delle Reliquie nel Duomo della sua città. La ricordo per il rapporto privilegiato che la sua scelta di vita penitenziale aveva stretto con la figura del “Cristo paziente”, in una adesione totale, sia spirituale che corporale, ad ogni momento e ad ogni segno della sua Passione; talmente intensa da sfiorare, consapevolmente, come attesta uno dei suoi biografi, il sospetto di insania. Il venerdì segnava il culmine della sua “inaudita imitatio Christi”, quando obbligava la fantesca della sorella Profeta, presso la quale si era ritirata, a legarle le mani dietro la schiena e trascinarla, legata, per la casa in memoria del doloroso percorso di Cristo verso il Calvario. Portando “la corona de spini de ferro in capo […] per amor di quella corona, de spini pongenti in fin al cervello penetrante, che per mio amor misser Iesù nel capo suo portò”. E Simone da Roma e Giacomo da Udine, gli estensori delle prime Vite, enumerano e descrivono tutto l’armamentario penitenziale di cui Elena si muniva, per rendere la sua Imitazione più aderente al modello. “El cerchio de ferro intorno al collo, li cerchi che porto nelle braze”, la veste di cilicio e le “trentatre piere” sotto le piante dei piedi, “le piere et saxi” sopra i quali dorme. “Il venerdì solo el pane dizunando magnava, ma felle e aceto beveva”. In casa della sorella Profeta, vedova di Candido Moisesso e anch’essa Mantellata Agostiniana, situata poco al di là del ponte sulla roggia, in “borgo Gemona di dentro”, ora Via Giovanni da Udine, si era fatta costruire “unam paradanam”, un tramezzo di legno, che isolava una specie di cella all’interno della sua camera, e “in cellulam suam manebat tota die”. Ne usciva solo al mattino, attraverso i “broli” di casa Moisesso, che si estendevano tra il Giardino, Via Portanuova e la roggia; la superava sul ponte dell’attuale vicolo della Banca e attraverso la porta di Santa Lucia, che si apriva nel terzo recinto murario, raggiungeva la prediletta Chiesa di Santa Lucia, annessa al Convento agostiniano degli Eremitani, ora Facoltà di Lingue dell’Università. Dopo la frattura dei femori prodotta da una delle ripetute aggressioni del Demonio, si faceva trasportare in Chiesa su un carro. Recava sempre con sé due pani e una candela e talvolta le porte della Chiesa si aprivano miracolosamente al suo approssimarsi. Nella Chiesa aveva ottenuto il permesso di farsi costruire un piccolo oratorio, simile alla sua cella domestica. Chiusa in quello spazio pregava incessantemente, talvolta recitando i salmi o accompagnandoli col canto. Riferiscono i suoi biografi che il suo Cristo amatissimo le aveva assicurato che dopo l’Eucarestia: “ogni mattina a ti vignarò, e tu me vederai con gli occhi corporali”. E, ancora che “quando receveva el Signore vedeva visibilmente in forma humana in carne e sangue come fu crocifisso in nel Monte Galvario, non senza gran misterio”. Elena muore, dopo una vita di feroci penitenze, ascoltando e recitando la Passione di Cristo.
Il giorno della sua morte tutte le campane della città suonarono a distesa e una grande folla partecipò ai suoi funerali. Giacomo Filippo Foresti inserisce la terziaria agostiniana udinese, accanto a Chiara da Montefalco e a Caterina da Siena come rappresentante della santità moderna, prima di Rita da Cascia. Il suo culto si diffuse rapidamente, sostenuto dagli Agostiniani e fiorì per almeno due secoli, con periodiche ostensioni della salma e distribuzione ai devoti di bioccoli di bambagia accostati al suo corpo incorrotto, per poi affievolirsi e quasi estinguersi. Dopo la soppressione del Convento degli Eremitani e della Chiesa di Santa Lucia, scompare ogni traccia della cappella che ospitava la salma incorrotta di Elena. Che viene trasferita prima nel Coro delle Clarisse (chiesa dell’Uccellis), e successivamente, dal 1845 nella Cappella delle Reliquie del Duomo. Un destino liturgico in diminuendo, curiosamente in controtendenza con le vicende del tardo processo canonico pontificio, che nel 1848 la dichiarano Beata.
Nella Cappella del Duomo che ospita infine la sua santa mummia, chiusa nell’urna di vetro, da tempo sono scomparsi i già scarsi, lacunosi e perfino errati, materiali illustrativi che vi si trovavano, a disposizione di chi desiderasse qualche informazione. Il suo nome è scomparso dai calendari friulani, anche da quelli pubblicati da Istituti che dovrebbero avere a cuore le memorie storiche locali. Non sembra che il giorno a lei dedicato veda celebrazioni liturgiche degne della sua santa memoria. Non ardono ceri, non ci sono fiori ad adornare il luogo deserto. La cappella scomparsa in Santa Lucia veniva descritta “plena est cerei, plena imaginibus”.
Qualche decennio addietro, in occasione di un viaggio in Spagna, percorrevamo una strada interminabile che tagliava la meseta a nord di Avila. La guida segnalava un complesso monumentale mozarabico, di cui faceva parte un antico convento, dove era nata Isabella la Cattolica, in un luogo dal nome affascinante: Madrigal de las Altas Torres. Lo raggiungemmo e varcammo la austera soglia del convento, accompagnati nella visita da una giovane suora Agostiniana. Prima di congedarci, ci chiese da dove provenissimo, e appena ascoltato il nome di Udine, i suoi occhi si accesero di meraviglia, perché ricordava che a Udine era nata ed era morta una Beata “de nuestra Orden Augustina”. E la meraviglia si accrebbe quando scoperse l’identità di chi si trovava di fronte. Ma la nostra fu molto maggiore della sua, e la mia in particolare. Uno degli ultimi della sua gente, a distanza di migliaia di chilometri dal luogo della comune origine, sentiva ricordare il nome e la santa fama della sua antenata. Pensai allora con una punta di amarezza al Friuli, a Udine, dove ben poche religiose, o religiosi, e quasi nessun friulano saprebbero far corrispondere al nome della Beata dimenticata un qualche sia pur sbiadito ricordo.