DA PORDENONEdi Giosuè Chiaradia
La più importante festa cristiana, la più antica, è contraddistinta, e non solo nel campo delle tradizioni popolari, dall’uovo, che – come ebbe a scrivere il grande studioso di simboli Louis Charbonneau-Lassy – appartiene di diritto all’emblematica di Cristo, prototipo del resuscitato: e quindi non sembri al lettore una mancanza di rispetto cominciare proprio da qui, ab ovo, come si diceva un tempo.
L’uovo pasquale storicamente non è affatto una tradizione popolare, e men che meno un elemento della gastronomia pasquale, ma tale è diventato: anche se oggi l’industria dolciaria dell’uovo di crema e cioccolato è diventata ossessiva e ha distrutto quasi completamente qualunque rapporto tra l’uovo e la storia, la religione, la natura facendone solo un prodotto dolciario di cui è impossibile fare a meno, l’uovo di per sé è uno degli archetipi universali della vita, simbolo della vita stessa che a primavera risorge dall’apparente morte dell’inverno, e si sovrappone esattamente nella Pasqua cristiana a Cristo che risorge dal sepolcro (che già s. Agostino paragonò al guscio di un uovo).
Fin dalla preistoria, esso è in certo senso la vita “arrotolata”, contiene in germe l’universo, ed è dunque legato ai rituali multi-millenari della primavera, in tutto il mondo e da millenni prima di Cristo: ci sono tombe preistoriche russe e svedesi con gusci di uova, o uova d’argilla, accanto ai resti del defunto, e così si fece nella protostoria faraonica, fenicia, cartaginese, etrusca. Non c’è religione, quasi, dall’Egitto, alla Grecia alla Fenicia, dalla Mesopotamia all’Iran, dall’India al Giappone alla Polinesia, in cui non ci sia un inizio dall’uovo, da cui muovono – per fare qualche esempio – le mitologie di Osiride e Iside, di Horus, Eros, Astarte, Brahma. Gli Ebrei dopo un funerale usavano mangiare un uovo; i primi cristiani deponevano talora nelle tombe dei martiri delle catacombe uova di pietra o gusci d’uovo, e l’uso continuò anche nel corso del Medioevo (come nella Francia del VI-VII secolo); in tante cattedrali, durante le funzioni della Settimana Santa, si poneva sull’altare o si appendeva un uovo di struzzo che, come è noto, è di eccezionale grandezza e perfezione formale, e uova si vendevano sulle bancarelle delle piazze (nella fantastica cattedrale trecentesca di Burgos, nella Vecchia Castiglia, c’è una pittura di Cristo in Croce che poggia i piedi su quattro uova; né si può dimenticare che in tante sperdute chiese etiopiche il crocifisso che sormonta e conclude il tetto conico a tukul rechi spesso appese delle uova di struzzo. E, per inciso, ci piace pensare che forse proprio per questo nei cimiteri i ritratti dei nostri cari defunti sono sempre incorniciati in un ovale e mai in un quadrato o altro poligono.
Ma per comprendere come mai tutta la grande simbologia dell’uovo si sia concentrata sulla Pasqua, occorre fare un passo ancora più indietro: l’uovo, simbolo della resurrezione, della rinascita ciclica, della vita che incessantemente si rinnova, e quindi dell’immortalità che riparte dall’apparente morte (ex morte vita), si sposò già nella più remota antichità all’idea della primavera, della vegetazione, della fecondazione, in particolare dei giorni attorno all’equinozio di primavera e al primo plenilunio dopo di esso. In quei giorni i Persiani si regalavano a vicenda uova di gallina dipinte di rosso e oro. I Romani, tra fine marzo e i primi di aprile festeggiavano l’inizio della primavera con uova rosse, e le Vestali portavano in processione delle uova per la festa di Attis, dio anatolico della vegetazione, e di Cibele, la Magna Mater, la Natura, l’eterna e misteriosa potenza generatrice della Terra.
È su queste premesse, oltre che sulla Pasqua ebraica (nella quale pure figurava in tavola l’uovo dipinto di rosso), che nel corso del Medioevo l’uovo sodo (a tinta naturale, o dipinto, o decorato) cominciò a diventare simbolo della Resurrezione, sicché si cominciò a benedire le uova il Sabato Santo per consumarle la domenica di Pasqua (tradizione rimasta ben viva nel vicino mondo ortodosso, ma tutt’altro che assente in quello cattolico e reperita qua e là anche in Friuli); poi, nei secoli successivi cominciò la bella abitudine di regalare uova, giunta fino al nostro tempo, anzi di farne un oggetto di lusso e di sorpresa nel mondo ristretto del potere e dell’agiatezza.
Oggi le uova pasquali – almeno prima del dilagare di quelle create dall’industria dolciaria solo a scopo di lucro – sono ancora di gallina, e vengono, o venivano fino a tempi recenti, regalate tra innamorati o amici, o da nonni a nipotini, o come ricompensa per un lavoro o un favore ricevuto, come la pulizia della catena del focolare o la lucidatura del rame. Un caso particolare di questa tradizione era il rosario de spago / rosari cul spali, detto anche quaresima / caresima / coresima / coresime, uno spago con 46 nodi, ciascuno dei quali veniva bruciato giorno per giorno nel corso della Quaresima, dopo la recita d’una preghiera o d’un certo numero di preghiere: alla fine i santoli (padrini o più spesso madrine) beneficiari di quelle preghiere, avrebbero ricambiato a Pasqua con un cestello d’una decina di uova.
Eppure, anche se l’uovo pasquale ha perduto via via l’originale significato filosofico e religioso per diventare una piacevole tradizione legata al calendario della Pasqua, esso mantiene talora certe caratteristiche derivanti probabilmente dagli antichi riti di primavera. Ad esempio, il colore rosso è ancora il preferito, e si sa che il rosso è sempre stato quasi dovunque, dall’Europa all’Asia centrale, apotropaico contro ogni influsso negativo; e poi le uova raccolte il Venerdì Santo, benedette il Sabato, bevute o mangiate a Pasqua o Pasquetta, venivano credute un efficace preventivo contro la debolezza dei muscoli, il mal di schiena, il rischio di brutte cadute dei bambini. Ma c’è di più: ciò trova prezioso riscontro nelle ricerche dell’antropologo Gian Paolo Gri, attestanti che nel 1591 a Venezia in Santa Maria Formosa una donna malata mangiava ogni giorno un uovo benedetto, con i nomi di Cristo e degli Apostoli, per un totale di 13 uova; e nel 1648 a Rodeano, in quel di San Daniele del Friuli, una guaritrice aveva curato una malata di Coderno di Sedegliano toccando per tre giorni le sue piaghe con un uovo deposto da una gallina nera nel giorno dell’Ascensione…
Ciò non ha più nulla – o quasi – a che fare con le nostre uova pasquali: ma certo almeno ci fa capire che la storia dell’uovo di Pasqua è antichissima e complicata. Il fatto, ad esempio, che quell’uovo non debba essere semplicemente quello che rompiamo per la frittata, ma debba essere decorato con qualche figura vivente (occhi, bocca, capelli quasi un preistorico feticcio) o almeno colorato e reso “diverso”, non si spiega con la sola grande festa di Pasqua. E così dicasi per l’acqua di lessatura che in Friuli, rovesciata nel pollaio, allontanava i parassiti delle galline; per la pellicina interna, che era ritenuta in qualche posto antidolorifica; per i frammenti del guscio che, sparsi davanti alla porta della stalla o attorno alla casa o all’orto, si pensava allontanassero serpi e formiche.
Ancora più eloquente è il fatto che il giorno dedicato alla consumazione delle uova pasquali è ancora oggi il lunedì di Pasquetta, quando ci si deve, tempo permettendo, recare sui prati di nuovo verde per giocare anche con le uova e per mangiarle in letizia, rigorosamente sull’erba, quasi per una scambievole trasmissione di nuova linfa tra natura e creatura umana (non sembri inutile aggiungere: anch’essa elemento della natura come l’erba che rinverdisce o la nuova gemma che s’apre a foglia). Certo che l’uovo di cioccolata sarà bello e costoso, ma è analfabeta e di tutte queste cose non sa nulla.
(Tratto da La maschera, la cenere, il volto. Le più belle tradizioni di Carnevale, Quaresima e Pasqua, volume di prossima pubblicazione).