di Enos Costantini
Ogni giorno, vicino al ponte della Ledra, si trovavano lì a quell’ora. Era un’ora precisa perché li vedevo passando sulla corriera che mi riportava a casa da Gemona dove frequentavo la seconda media. Erano lì nel più crudo dell’inverno, mentre noi si agognava una cucina calda e un piatto caldo. Facevano ormai parte del paesaggio e solo raramente scappava una battuta sul freddo e sulla fame che quei due non sentivano. Lui aveva le mani paonazze perché in quel luogo tirava sempre un gelido Tramontano, lei aveva dei guanti di lana fatti in casa. Si parlavano. Mi chiedevo che cosa avessero mai da dirsi, ma una volta si usava così: due giovani che si piacevano stavano ore a parlare, incuranti della gente che passava, rispondendo frettolosamente a chi rivolgeva loro il saluto, beandosi delle parole dell’altro e guardandosi negli occhi.
Erano belli.
Due macchie di colore che risaltavano nel paesaggio spoglio e brullo di gennaio, al margine di quell’immenso prato che si chiamava il Pascat, nell’intersezione che la strada bianca adiacente alla Ledra formava con la strada asfaltata. Proprio come nell’aurea regola dei quattro terzi si trovavano posizionati nell’angolo in basso a sinistra. Lì, seduti sulla bicicletta, senza fame e senza freddo, offrivano una vista che sarebbe piaciuta a tutti gli artisti.
Lui aveva capelli nerissimi e carnagione scura, un volto dai lineamenti regolari e ben tagliati, occhi sempre sorridenti, la battuta pronta come tutti quelli di Avasinis, un giubbino nero di cuoio alla Teddy Boy, emanava simpatia lungi un miglio e, caso non frequente, tutti i maschi ne gradivano la compagnia. La sua bicicletta era di quelle che facevano gola ai coetanei, nuova, sportiva, forse anche “cromata”, col manubrio corto sul quale, è uno dei ricordi più vivi, appoggiava le mani arrossate dal freddo. E non mancava, a ornamento del mezzo, qualche lavoro di Scoubidou, all’epoca assai in voga tra i più giovani.
Lei era bionda, con una splendida frangia che usciva da una specie di sciarpa di lana che teneva sul capo, aveva una bici da donna quasi nuova, pelle chiara, splendide labbra carnose piuttosto pronunciate e naso leggermente aquilino; un sorriso contenuto e occhi grigi lasciavano intendere una personalità forte. Abitava in un casale isolato, situato non lungi da lì, su una delle tante strade che nella piana di Gemona si muovono parallele, ortogonali al Tramontano, spesso rivestite di siepi ai lati.
Mi chiedevo che cosa potesse pensare la madre di lei non vedendola arrivare per pranzo; non mi chiedevo del padre perché non avevo mai visto uomini in quel casale.
Quanto alla famiglia di lui era semplice: la madre avrebbe fatto qualche battuta come si usa ad Avasinis e il padre non c’era: emigrante in Francia. Fosse stato a casa si sarebbe aperto in un sorriso, quel sorriso franco e limpido che ne faceva una delle persone più simpatiche e ben viste del paese.
Il lettore sa come finiscono queste storie. Nei primi singulti di primavera, quando il prato era ancora brullo, ma il rude Tramontano lasciava il campo a un quasi tiepido venticello birichino e le viole spuntavano tra i cespugli della Ledra il quadretto si manteneva costante, ogni giorno, e lo fu fino agli scrutini di giugno.
Ricordo che gli indumenti cambiarono, i guanti sparirono, le mani presero il loro colore normale, il giubbino da Teddy Boy rimase fino all’ultimo, i cespugli della Ledra misero le foglie, durante le piogge di primavera spuntarono due ombrelli, il grande prato magro del Pascat divenne verde quasi a un tratto e, quando le spighe delle graminacee cominciarono a ondeggiare luccicando, la scuola finì.
Ah, sì, lo so che il lettore vuole la fine di questa storia, la fine vera, lieta o triste che sia. Ma il lettore, come sopra ho insinuato, sa come finiscono queste storie. Non voglio soddisfare quel leggero masochismo che ora si è impadronito di lui, desidero solo togliere il fiocco a un dono che è rimasto fino a oggi nel fondo della mia ormai vuota bisaccia.
L’anno dopo la Ledra scorreva da sola, gelida, col suo solito rumore monotono e sommesso, la strada bianca che la costeggia alzava polvere ad ogni folata di vento senza che questa si posasse sui guanti di lana fatti in casa o velasse il lucido giubbino da Teddy Boy, il Pascat formava una landa monocroma senza punti colorati di richiamo; era l’inverno, quello di sempre, quello che ritorna ogni anno, col Tramontano che ti imbramisce le mani e si accanisce cattivo sui rari ciclisti, col desiderio di una cucina calda, con le siepi della Ledra trasformate in stecchi fra i quali si muove svelto lo scricciolo.
Erano belli, sono stati un regalo.
(scritto il 23 ottobre 2017, fra le cinque e le sei del mattino)